Le uniche al mondo

Non so dove attingessero quel potere, ma mi davano la sensazione di essere le uniche creature al mondo in grado di comprendere; di accettare in silenzio tutto il mio essere, anche ciò che io stessa non capivo, anche ciò che lasciavo sospeso prima che venisse a galla, intuizione frullante rimasta incompiuta e perciò vergine.

Quando uscivo sul pianerottolo di casa e me le trovavo davanti, a offrirmi tutta la luce di un giorno, al crepuscolo, o la fresca trasparenza del mattino nuovo, allora sapevo che tutto quello che ero in quel momento, tutto quello che sarei stata, era custodito in esse; sapevo che al loro cospetto potevo piangere, ridere con la gioia a scoppiarmi in gola, scoprirmi bella, sbagliare, intuire, e piangere. Al loro cospetto mi sentivo libera, autentica, coraggiosa. Eterna.

Mi bastava guardarle, perdere lo sguardo tra le crode, per sentire che loro sapevano, nella loro immota, millenaria, consapevole presenza. Era come se un arcano complice comunicare fluisse tra me e il palpitante cuore della roccia, come se una consapevolezza ancestrale ci facesse alfine annuire insieme su un Universo in cui tutto era al suo posto, e tutto era ancora da scoprire.

Sono passati tanti anni. Mi è difficile riuscire ancora a sentire che ogni cosa è al suo posto, nell’Universo. Preferisco credere che sia così, ma la tonda certezza della prima gioventù è un’altra cosa.

Ora distolta dal turbinare di un Universo di cui irrimediabilmente non sono più io il centro, a volte mi dimentico pure di guardarle. Magari le fotografo, le indico, le insegno ai miei figli, ma riservo loro solo di rado quello sguardo d’amore complice e senza ombre.

Ma quando succede le trovo sempre lì, non sono cambiate. Non hanno mai smesso di dirmi che posso essere libera, autentica, coraggiosa. Non hanno mai smesso di sapermi eterna.

Le mie montagne.

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Autostima

Su un librino che dovrebbe aiutare ad aumentare l’autostima mi chiedono di rispondere a questa domanda: qual è il tuo contributo irripetibile all’umanità? Ecco a me la fa un po’ calare l’autostima, una domanda del genere. Nel senso, io credo nel mio piccolo di dare sì un contributo, ma minimo, ecco: faccio del mio meglio. E senz’altro sono come tutti un essere unico e irripetibile. Ma la combinazione di quelle due parole contributo + irripetibile mi crea qualche perplessità. Quando non ci sarò più senz’altro dispiacerà a qualcuno, senz’altro qualcuno sentirà la mancanza di alcune mie qualità positive, per certe persone la mia presenza nel mondo non sarà sostituibile – ma magari rimpiazzabile sì, anzi me lo auguro – ma a conti fatti non credo che in qualche ambito della mia esistenza ci sarà qualcuno che celebrerà il mio contributo irripetibile all’umanità, mi sembrerebbe già più che abbastanza se tre o quattro persone – al di là dei miei congiunti e amici più stretti – fossero in grado di ricordare un singolo episodio in cui in qualche modo avrò dato un piccolo ma significativo (e possibilmente positivo) contributo alla loro esistenza, e con ogni probabilità si tratterà di tutt’altro rispetto a quello che ora posso comunque solo vagamente immaginare; non penso nemmeno che il mio operato su questa terra, in generale, non possa essere svolto egregiamente e magari pure molto meglio da qualcun altro. Perciò, ecco, non so proprio come rispondere ad una simile domanda. E più ci rifletto più penso che tutto sommato è giusto così, perché dovrei abbattermi? Perché per stare bene con me stessa dovrei potermi pensare così necessaria ed eccezionale? Non voglio insegnare ai miei figli che accettarsi significhi per forza sentirsi speciali. Voglio piuttosto che si fabbrichino tutti gli strumenti per scavare nella propria umanità, per abbracciarla con equilibrio e ironia, con impegno e consapevolezza, per portarla a compimento nella sua verità, serenamente, per quel che sarà. Che cosa ne pensate, voi?

Lo scriveva Gibran, ma mia figlia lo sapeva già

io: vieni qui che ti spazzolo che hai in testa un cespuglio.

C: no quella spazzola mi tira i capelli. ho già fatto da sola.

io: ma hai ancora in testa un cespuglio, faccio io, ti prometto che faccio piano.

C: no.

io: faccio piano.

C: no! sono io la governante di me stessa!

io: ma io sono la tua mamma, sono anch’io “la governante di te stessa”!!

C: ma io di più, perché io sono, me stessa!

 

C ha cinque anni e mezzo, e temo che mi darà filo da torcere.

I have a dream

Sarà perché alla lunga mi risulta faticoso star sempre lì a vigilare su quello che dico e come lo dico, su come mi comporto e quali meccanismi metto in atto (infatti spesso mi dimentico di farlo e dico cose di cui mi pento); sarà perché comunque non è umanamente possibile farlo in modo proprio esaustivo (e d’altra parte uno che agisce sempre nel pieno controllo di sé non lo so se risulti poi simpaticissimo); sarà perché non sopporto quelli che sono del tutto inconsapevoli di certe incoerenze nel loro modo di condursi, completamente incapaci di guardarsi da fuori, e il solo pensiero che naturalmente sono anche io esposta a simili chiamiamole “cadute di stile” mi atterrisce.

Ma ho questo sogno: per una settimana all’anno, tu non sai quando e come avverrà neppure mentre sta avvenendo, un esperto (psicologo? sociologo? esorcista? veterinario?) ti osserva durante tutte le tue interazioni sociali – al lavoro in famiglia alle poste dal panettiere – da quando ti alzi al mattino a quando ti addormenti la sera (ecco magari tralasciando un certo tipo di interazioni…), e al termine della settimana ti chiama e ti racconta quello che ha visto (magari ha pure dei filmati!), ti aiuta a darne lettura, a smascherare gli inghippi, a identificare i punti deboli e i mezzi per migliorare. Obbligatorio. Per tutti, dai 18 anni in su.

Non riesco a capire se è un’idea geniale che potrebbe migliorare il mondo o un parto della mia sindrome della prima della classe.