Non so dove attingessero quel potere, ma mi davano la sensazione di essere le uniche creature al mondo in grado di comprendere; di accettare in silenzio tutto il mio essere, anche ciò che io stessa non capivo, anche ciò che lasciavo sospeso prima che venisse a galla, intuizione frullante rimasta incompiuta e perciò vergine.
Quando uscivo sul pianerottolo di casa e me le trovavo davanti, a offrirmi tutta la luce di un giorno, al crepuscolo, o la fresca trasparenza del mattino nuovo, allora sapevo che tutto quello che ero in quel momento, tutto quello che sarei stata, era custodito in esse; sapevo che al loro cospetto potevo piangere, ridere con la gioia a scoppiarmi in gola, scoprirmi bella, sbagliare, intuire, e piangere. Al loro cospetto mi sentivo libera, autentica, coraggiosa. Eterna.
Mi bastava guardarle, perdere lo sguardo tra le crode, per sentire che loro sapevano, nella loro immota, millenaria, consapevole presenza. Era come se un arcano complice comunicare fluisse tra me e il palpitante cuore della roccia, come se una consapevolezza ancestrale ci facesse alfine annuire insieme su un Universo in cui tutto era al suo posto, e tutto era ancora da scoprire.
Sono passati tanti anni. Mi è difficile riuscire ancora a sentire che ogni cosa è al suo posto, nell’Universo. Preferisco credere che sia così, ma la tonda certezza della prima gioventù è un’altra cosa.
Ora distolta dal turbinare di un Universo di cui irrimediabilmente non sono più io il centro, a volte mi dimentico pure di guardarle. Magari le fotografo, le indico, le insegno ai miei figli, ma riservo loro solo di rado quello sguardo d’amore complice e senza ombre.
Ma quando succede le trovo sempre lì, non sono cambiate. Non hanno mai smesso di dirmi che posso essere libera, autentica, coraggiosa. Non hanno mai smesso di sapermi eterna.
Le mie montagne.